Il memoriale di Marco Accetti non è un documento che si presta alla scorciatoia del riassunto. È un testo che obbliga chi legge a fermarsi, perché non procede per suggestioni ma per accumulo di dettagli che, uno dopo l’altro, diventano difficili da spiegare come frutto di fantasia. Non perché siano spettacolari, ma perché sono specifici. Troppo specifici.
Il primo nodo, quello che regge l’intera impalcatura, è la vicenda delle lettere spedite da Boston. Per anni considerate un corpo estraneo, quasi un capitolo americano della storia, vengono ricondotte a una regia unica nel momento in cui Gabriella Boggiani viene identificata e ammette di aver prestato la propria voce. Non una generica collaborazione, ma una registrazione precisa, con indicazioni linguistiche puntuali, tra cui la pronuncia volutamente scorretta della parola “States”. Un dettaglio che Accetti aveva già riferito dieci anni prima agli inquirenti. Qui non si tratta di un riconoscimento postumo, ma della conferma di una coincidenza temporale che scavalca il sospetto di costruzione retroattiva.
A questo punto il discorso cambia natura. Se il materiale di Boston è riconducibile ad Accetti, non resta più isolato. Diventa il capostipite di una serie di comunicati che condividono carta, grafia, stile. Non “alcuni”, ma tutti quelli disseminati a Roma nei mesi successivi alla scomparsa di Emanuela Orlandi. L’effetto non è quello di una prova schiacciante, ma di una chiusura del cerchio: non ci sono più filoni autonomi, solo un’unica linea operativa.
È qui che entra in gioco la voce. Non quella maschile, su cui le perizie si sono rincorse per anni, ma quella femminile. La voce che compare sulle cassette e che viene riconosciuta dai familiari come quella di Emanuela Orlandi. La forza di questo passaggio non sta nel riconoscimento in sé, sempre discutibile, ma nel contesto. Non esistono altre registrazioni pubbliche della voce di Emanuela. Non interviste, non nastri domestici, non archivi scolastici. E soprattutto, il contenuto di quelle frasi non è compatibile con una messa in scena consapevole. Non c’è impostazione, non c’è recitazione. C’è un parlato ambientale, impastato di rumori, con un tono che non appartiene a una quindicenne che “sa di essere registrata”.
A questo punto il memoriale smette di essere un racconto di depistaggi e diventa qualcosa di più disturbante: una ricostruzione che implica un contatto diretto con la ragazza dopo la scomparsa. E non un contatto episodico, ma reiterato, organizzato, tecnicamente curato. Lo stesso registratore, lo stesso microfono ambientale, lo stesso metodo. Qui l’ipotesi del mitomane non regge più, perché il mitomane inventa storie, non produce materiale coerente nel tempo.
Lo spartito musicale è un altro esempio di dettaglio che non funziona come simbolo, ma come prova indiretta. La sua fotocopia viene trovata allegata a un comunicato. La proprietaria lo riconosce come proprio e spiega di averlo prestato a Emanuela il giorno della scomparsa. Non è un oggetto qualsiasi: è qualcosa che Emanuela aveva con sé nello zaino. Chiunque altro avrebbe potuto immaginarlo? Forse. Ma qui il punto è un altro: lo spartito originale non verrà mai ritrovato in casa Orlandi. E sulle fotocopie vengono incollati foglietti con nomi, indirizzi e numeri di telefono scritti nella grafia attribuita alla ragazza. Se quelle scritture sono autentiche, allora sono successive alla scomparsa. Se non lo sono, qualcuno ha replicato una grafia senza disporre di modelli pubblici. In entrambi i casi, l’ipotesi banale non è disponibile.
Il memoriale procede così, senza mai alzare la voce, ma accumulando elementi che non cercano l’effetto mediatico. Il flauto, ad esempio. Non quello consegnato anni dopo, ma il semplice flauto dolce che la sorella di Accetti ricorda di aver visto nel 1983. Un oggetto che non era mai stato citato pubblicamente, ma che risulta coerente con le abitudini di Emanuela. Anche qui il punto non è “è vero”, ma “come poteva saperlo?”. La stessa domanda torna per il ciclo mestruale della ragazza, informazione confermata dalla famiglia e mai divulgata. Non è un dettaglio macabro, è un dato intimo, che non serve a costruire una narrazione eroica, ma che distrugge l’idea dell’estraneità totale.
Il quadro si completa con i testimoni visivi. L’appuntato Bosco, il vigile Sambuco, l’identikit che coincide con una fotografia giovanile di Accetti. L’auto verde metallizzato posseduta in quell’anno. Anche qui, nessun singolo elemento è risolutivo. Ma la somma non è casuale. È coerente.
Lo stesso schema ritorna nel caso di Mirella Gregori. Telefonate con descrizioni minuziose degli abiti, compresa una maglia non visibile. Conoscenze affettive usate come leve psicologiche. Informazioni confermate dai familiari e non note ai giornalisti. Qui emerge un metodo: osservare, avvicinare, studiare, attendere. Non l’impulsività del predatore, ma la pazienza del regista.
E poi c’è il capitolo Skerl, che chiude il memoriale con un senso di vertigine. Bara aperta, corpo rimosso, oggetti occultati, scenografie distrutte da un incendio mai chiarito. Anche qui, Accetti parla solo quando l’inchiesta viene archiviata, quasi a voler dimostrare che il silenzio precedente non era incapacità, ma scelta. Una scelta che non chiede comprensione, ma attenzione.
Il memoriale non indica mandanti, non offre moventi politici o religiosi. Si ferma un passo prima. È come se dicesse: prima di chiedervi perché, chiedetevi se tutto questo può essere inventato senza lasciare crepe. Perché le crepe, finora, sembrano stare più nelle archiviazioni che nel racconto.
Ed è forse questo l’aspetto più scomodo. Non l’idea che Accetti dica la verità su tutto, ma la possibilità che dica la verità su troppo. E che quel “troppo” non sia mai stato davvero affrontato.


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