Mente malata nel caso Orlandi

    Una sola mente dietro il caso di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori

    Dopo quarantatré anni, descrivere il caso Orlandi richiederebbe un numero sterminato di parole. E tuttavia, proprio questa abbondanza rischierebbe di tradursi nell’ennesima dispersione. Le piste, i personaggi, le ipotesi stratificate nel tempo finirebbero ancora una volta per ricondurci al vuoto, come già accaduto troppe volte.

    Si tratta di un caso che, almeno in apparenza, sembra talmente complesso da risultare irresolubile senza il ricorso a elementi esterni, spesso clamorosi: la pista internazionale, il presunto coinvolgimento di alti vertici vaticani, la figura di De Pedis e l’ombra della Banda della Magliana. Un turbinio di fattori che, tuttavia, non ha mai fornito una spiegazione davvero coerente, esaustiva e logicamente fondata del movente del rapimento di Emanuela Orlandi. Ed è proprio il movente, ancora oggi, il vero nodo irrisolto, la trappola concettuale in cui l’intera vicenda continua a impigliarsi.

    Ho più volte sostenuto che il caso di Mirella Gregori e quello di Emanuela Orlandi non siano affatto sovrapponibili, né riconducibili a un’unica motivazione. La mano rimane immutata anche se Mirella viene spesso richiamata come elemento di supporto alla tesi della liberazione di Ali Agca, ma è possibile che la realtà sia esattamente opposta. Non venne rapita per essere unita nel ricatto allo stato Italiano e Vaticano, questo succede dopo.

    Mirella scompare prima, e per ragioni profondamente diverse. La sua vicenda sembra inserirsi nel contesto di un meccanismo già attivo da tempo, una macchina oscura e collaudata di adescamento di adolescenti, molte delle quali venivano inghiottite nel silenzio, senza lasciare traccia.

    L’idea di Emanuela, invece, potrebbe nascere successivamente, forse nella mente di un individuo disturbato, animato dal desiderio di lasciare un segno indelebile nella storia. Un passo più lungo della gamba: colpire una cittadina vaticana, dare origine a un caso mediatico di proporzioni enormi, destinato a sopravvivere al tempo e a sedimentarsi nell’immaginario collettivo come uno dei misteri più inquietanti del Novecento italiano.

    Se si accetta questa chiave di lettura, allora il cosiddetto “caso Orlandi” cessa di essere ciò che per decenni si è creduto che fosse. Non più un enigma corale, non più il risultato di una convergenza di poteri occulti e interessi sovranazionali, ma la costruzione progressiva, lucida e ostinata, dell’elaborazione mentale di un solo individuo. Un’architettura narrativa concepita nel tempo, raffinata, adattata, corretta, fino a diventare credibile, resistente, quasi indistruttibile.

    In questa prospettiva, il caso non nasce come evento, ma come racconto. Un racconto che si alimenta di simboli potenti e di ambienti opachi, evocati non perché realmente centrali, ma perché immediatamente riconoscibili, spendibili, suggestivi. Logge più o meno reali, come la P2. Ambienti estremisti come quelli dei Lupi Grigi. La criminalità romana della Banda della Magliana. Settori dell’imprenditoria. Il Vaticano, la politica, i servizi segreti. Non come fulcro operativo, ma come abiti scenici, come quinte teatrali dietro le quali far muovere una trama che, senza di esse, sarebbe apparsa per ciò che era: fragile, sproporzionata, forse persino banale.

    Il meccanismo è tanto semplice quanto perverso. Si prende un fatto reale, una scomparsa tragica e inspiegabile, e la si sottrae progressivamente alla sua dimensione umana e concreta. La si carica di significati che non le appartengono, la si innesta in un sistema di rimandi continui, di allusioni, di collegamenti indiretti. Ogni elemento non serve a spiegare, ma a complicare. Ogni nuova pista non chiarisce, ma confonde. Ogni nome evocato non risolve, ma allarga il campo, rendendo impossibile distinguere il vero dal verosimile.

    In questo senso, il caso Orlandi non è mai stato risolto perché, forse, non è mai esistito come lo si è raccontato. È esistita una scomparsa. È esistita una tragedia familiare. Ma ciò che negli anni è diventato “il caso Orlandi” è altro: una narrazione stratificata, alimentata da depistaggi emotivi prima ancora che investigativi, sostenuta da una conoscenza profonda dei meccanismi mediatici, giudiziari e psicologici.

    Una sola mente, capace di muoversi tra ambienti diversi, di parlare linguaggi differenti, di adattare il proprio racconto all’interlocutore di turno. Una mente che ha compreso, prima di molti altri, che la verità non ha bisogno di essere dimostrata se è sufficientemente suggestiva, e che il mistero, se ben costruito, sopravvive più a lungo dei fatti.

    Così il tempo non ha dissolto il caso, lo ha consolidato. Ogni anniversario, ogni nuova commissione, ogni libro, ogni trasmissione televisiva non ha fatto altro che aggiungere strati, rendendo sempre più difficile tornare all’origine. E chi provava a sottrarre il racconto ai suoi orpelli veniva percepito come riduttivo, negazionista, quasi irrispettoso.

    Eppure è proprio qui che risiede l’inganno più grande. Aver convinto tutti che la complessità fosse prova di verità. Che l’intreccio fosse garanzia di profondità. Che senza Vaticano, servizi segreti e trame internazionali non potesse esistere una spiegazione.

    Se questo impianto crolla, allora il caso Orlandi non è più il simbolo di un potere oscuro e onnipotente, ma la dimostrazione di quanto una costruzione mentale, se sostenuta da contatti, intuizione e spregiudicatezza, possa prendere in ostaggio l’opinione pubblica, le istituzioni e perfino la memoria collettiva. Ed è forse questa la rivelazione più disturbante: non che la verità sia nascosta, ma che sia stata sepolta sotto una montagna di narrazione. Non da molti, ma da uno solo. E che per quarantatré anni tutti, in buona o cattiva fede, abbiano continuato a guardare il vestito, senza più interrogarsi su chi lo avesse cucito.

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